Originario

Originario di Pistolesa alla fine dell'800 partì per il Sudafrica

Altre Notizie riguardanti Mons. Pietro Strobino (leggi a metà dell'articolo)

Bollettino Salesiano
ANNO LXXXI. N.5    1° MARZO 1957 

Dalle MISSIONI
Il potere delle tenebre
Il missionario don Antonio Colbacchini, ci manda da Xavantina, un villaggio lungo le sponde del Rio das Mortes (Mato Grosso), una relazione impressionante sul terribile e diabolico « potere delle tenebre » nelle tribù dei primitivi
1a puntata
La grande paura
Mi trovavo sulla riva del fiume, subito dopo il tramonto. Qui il crepuscolo è breve, rapidissimo: una pennellata di chiaroscuri e subito si levano le grandi ombre della notte. Gli ultimi guizzi di luce tremavano in piccoli scintillii sulle onde. Al di là del fiume è uno schienale di alberi giganteschi: la selva, l'immensa selva tropicale.
All'improvviso udii grida confuse; riconobbi subito il timbro di quelle voci. Erano i Xavantes che fuggivano dall'aldea vicina. Ma perchè fuggivano? Dalla sponda facevano cenni e chiedevano piroghe per attraversare il fiume.
Mettemmo in acqua una canoa. I selvaggi fecero ressa attorno a noi. Parlavano, gesticolavano. Gli uomini, innervositi, brandivano l'arco e le frecce e stringevano sotto l'ascella il randello micidiale. I bambini piangevano e le mamme, con gli occhi dilatati dallo spavento, tentavano di calmare i piccoli, carezzandoli. C'era nell'aria un'angoscia spaventosa. Mettendo insieme le loro risposte, potei ricostruire la causa di tutta quella loro agitazione.
Il villaggio, poche ore prima, era stato attaccato di sorpresa da uomini di un altro villaggio, situato più a nord, in riva a un piccolo lago. Gli assalitori erano stati respinti a colpi di freccia, ma, nonostante tutto, erano tornati di nuovo all'assalto roteando i loro terribili randelli. La zuffa era stata violenta: due avversari erano caduti col cranio spaccato; un altro, colpito da una freccia, alla spalla, aveva abbandonato il randello ed era fuggito. Persuasi di non spuntarla, gli invasori si erano dileguati nella, selva. Dei difensori, invece, un ragazzo era miracolosamente sfuggito alla morte perchè aveva alzato un braccio nel tentativo di parare un terribile fendente; ma il braccio gli era rimasto orribilmente frantumato.
Fuggiti i nemici, i Xavantes, presi dalla paura, avevano deciso di abbandonare il villaggio. Temevano l'immancabile rappresaglia degli spiriti malefici che gli assalitori, nella rabbia e nella vergogna della disfatta, avrebbero scagliato contro di loro. Pensavano perciò di fuggire e di mettere, come scudo, il fiume.
Tentai con parole persuasive di calmare la loro eccitazione. Provai a convincerli a passar la notte lì dove si trovavano. Ormai era buio; sarebbe stato pericoloso passare il fiume in quelle condizioni. Furono parole inutili. Quella folla viveva sotto l'incubo di un immenso terrore. Visto che noi si resisteva alle loro- richieste, alcuni giovanotti, presi dal panico, si gettarono in acqua per passare a nuoto il fiume. Le donne iniziarono suppliche strazianti, mostrandoci i loro bimbi e supplicandoci di aver pietà. Si finì per cedere e, un po' alla volta, imbarcammo tutto il villaggio. Ma neppure sulla sponda opposta si tranquillizzarono; decisero di addentrarsi nella selva in modo da lasciare le nostre case come schermo tra loro e il fiume.
In seguito insistetti perchè ritornassero al loro villaggio. Non ci fu verso. Confessavano di aver paura; e la paura li costringeva a impiantare un nuovo villaggio nel cuore della foresta.
Fu quello il tempo in cui nei pochi e sparsi villaggi dei Xavantes passò come un bagno di sangue; si verificarono massacri a tradimento di uomini, donne e bambini e sterminio di intere famiglie. Perchè tanto sangue?
Cosa pensano dell'anima
La mia esperienza di 50 anni di apostolato mi ha fatto toccare con mano il terribile potere dello spirito delle tenebre su questi poveri selvaggi.
Ho passato molti anni tra i Bororo Orientali, selvaggi dell'altopiano centrale del Brasile, nella parte orientale del Mato Grosso. Ho studiato i loro usi e costumi, la loro organizzazione sociale. Ho fatto mia la loro lingua. Questi uomini, cresciuti all'ombra delle foreste vergini, sono dotati di una intuizione smagliante; hanno il dono di una immaginazione fascinosa e di un raro spirito di osservazione. Distinguono e conoscono ogni minimo oggetto di flora e di fauna; hanno una ricchissima nomenclatura per i vegetali e i minerali. Ho notato una cosa.: quando si tratta di formulare un concetto astratto, ricorrono sempre a giri di frase. Noi diciamo, per esempio: « io ho sete ». Essi dicono: « io desidero acqua ». Noi diciamo: « è notte». Essi dicono: « le cose si fanno nere ». Noi diciamo: « Ecco la luce ». Essi dicono: « Ecco ciò che si sprigiona dal fuoco ». La parola « rabbia » è da loro tradotta con questa palpante espressione: « La mia carne trema ».
Questa gente, che rifugge dai pensieri astratti e che lega tutto a espressioni corporee e materializzate, riconosce l'esistenza di una forza il cui potere è di dare al corpo la possibilità di sentire e di agire: l'anima. Credono che questa forza vitale, l'anima, abbandonerà completamente e definitivamente il corpo, solo quando esso sarà completamente distrutto. Di qui derivano le lunghe, macabre cerimonie funebri dei Bororo con le quali accelerano la decomposizione del corpo. Le ossa del defunto vengono accuratamente ripulite e rivestite di penne e piume dai colori sgargianti; tutto viene rinchiuso in una cesta che sarà calata e fissata nel fondo di uno stagno, a una profondità di almeno tre metri. Solo allora, allo scadere di tutte quelle cerimonie, essi credono che l'anima, definitivamente liberata, entri a far parte del mondo degli spiriti.
I selvaggi pensano che le anime (eroe) pur separate dai corpi ed entrate nella dimora degli spiriti, non lascino di sentire e di provare gli stessi stimoli di un tempo: perciò continueranno ad avere fame e sete, freddo e caldo. All'idea dell'immortalità dell'anima associano quella della materialità. Sono convinti che le anime dei defunti vaghino intorno al villaggio in cerca di cibi e di frutta di cui son ghiotti. Per soddisfare tali desideri i Bororo pensano che le anime possano invasare alcune specie di uccelli, come gli araras, i pappagalli, i tucani, e sfamarsi in tal modo a loro piacimento. Se invece sono golose di pesce, essi pensano che possano entrare in uccelli acquatici, come il Tuiuiù, lo Jaburù e altri palmipedi. Ecco spiegato perchè i Bororo alle vano nelle loro capanne varie specie di pappagalli e di araras.
Se le anime non ricevono o non trovano ciò che loro aggrada, si irritano e si vendicano. Il anno un potere di fluidità e di osmosi per cui possono filtrare nel corpo di persone o di animali o nei vegetali e recare danni di ogni sorta.
Spiriti e stregoni
Per il selvaggio, la morte avviene per separazione dell'anima dal corpo, ma è una separazione violenta che non succede mai per cause naturali. Sarà sempre opera di potenze superiori, l'azione di uno o più spiriti che intendono causarla come piace a loro. La morte, nel pensiero del selvaggio, è il male supremo; è l'opera di uno spirito malefico che intende con ciò vendicarsi di un male ricevuto in vita. I selvaggi nutrono terrore per le anime dei trapassati. Tutto ciò che di anormale accade nella selva o nella loro vita è, per i selvaggi, opera di spiriti superiori e provoca in loro uno stato di eccitazione e di paura. Un'eclisse del sole o della luna, una stella filante, il rombo del tuono, lo schianto del fulmine che incenerisce alberi secolari, sono fenomeni che sconvolgono e terrorizzano il figlio della selva. Egli pensa che siano sempre una spia, una segnalazione degli spiriti... Cosa annunciano? Che male accadrà? Quali disgrazie minacciano? Chi morrà?... Chi gli può rispondere è lo stregone (Bari).
Qui entriamo nel campo della magia, che non è solo stregoneria o trucco medianico e illusionistico, ma vera e reale comunicazione con gli spiriti ultraterreni, che si manifestano facendo conoscere le loro volontà, le loro imposizioni, i loro castighi. Lo stregone, con grida e scongiuri, entra in una specie di trance; lo spirito lo invasa e parla per sua bocca.
Sono stato testimone a fatti raccapriccianti, di una realtà evidentissima.
Anni or sono, in una notte limpida, punteggiata dai fuochi delle stelle, stavo con i selvaggi contemplando lo sfavillio, degli astri. D'improvviso un aerolito solcò il cielo, in tutta la sua lunghezza, luminoso come un proiettile tracciante, e andò a spegnersi a ponente. I selvaggi furono colti dal terrore e, radunati sulla piazza del villaggio, interrogarono lo stregone pregandolo di scongiurare lo spirito perchè rivelasse il motivo di quella sua mianifestazione. Lo stregone iniziò un complicato cerimoniale di alte grida, di spasimi, di contorcimenti. Poi dette la risposta: quella fiammata di luce indicava che lo spirito, il Bope, era sceso nel tal villa;ngio (e qui disse il nome) dei Bororo e si era mangiato uno che era cacico (e anche qui disse il nome). Il villaggio indicato dallo stregone si trovava a una distanza di oltre 200 chilometri. Non c'era nessuna possibilità umana di mettersi in comunicazione immediata con quel villaggio. Otto giorni dopo arrivarono due selvaggi Bororo dal villaggio, portando la notizia della morte del cacico, avvenuta esattamente nel giorno e nell'ora precisa in cui eraa stata vista la luce della meteora.
Un'altra volta, durante un'eclissi di luna quasi totale, vi fu nell'aldea dei selvaggi un terrore, una psicosi da paura collettiva. Si precipitarono in mezzo al grande cortile, corsero a chiamare lo stregone (o Bari) perchè domandasse agli spiriti il motivo della loro collera. Dopo le solite cerimonie, lo stregone ebbe la risposta: lo spirito sarebbe venuto a uccidere due Bororo, perchè di nascosto avevano mangiato frutta proibita. Non disse il nome, ma con la mano ossuta e tremula, allungando il braccio, puntò il dito verso le capanne dove lo spirito avrebbe falciato le sue vittime: una a oriente, l'altra a ponente. Un soffio di terrore passò su tutti; nessuno fiatava. Con la tristezza nel cuore rientrarono in casa. Tre mesi dopo, due donne amiche si recarono in cerca di frutta verso il Rio das Mortes. Non tornarono più. Fu organizzata una spedizione di ricerca; al terzo giorno furono trovate morte, uccise e crivellate di colpi dai terribili Xavantes, implacabili nemici dei Bororo. Le capanne che quelle due donne abitavano erano esattamente quelle indicate dallo stregone, nella notte dell'eclisse lunare.
Potrei citare altri fatti di cui fui testimone.
I selvaggi vivono in un'atmosfera di terrore. Essi sono matematicamente certi dell'esistenza di spiriti superiori, da cui si sentono controllati e dominati. Tutto ciò che di male piomba su di loro è scatenato dagli spiriti; di questo non han dubbi. Ciò che li preoccupa è di placare queste potenze e di accaparrarsene la benevolenza.
segue 2a e 3a puntata
Sac. ANTONIO COLBACCHINI S.D.B.
Un solo desiderio: morire in missione
Polur, 31 dicembre 1956
La nostra rev. Ispettrice di rítorno dall'Italia ci portò la notizia che Lei, Madre, concede alle missionarie più anziane di rimpatriare, anche solo per pochi mesi. Sì, sarebbe una soddisfazione naturale il rivedere dopo tanti anni la patria, le Superiore, i parenti, le tombe amate del nostri Cari; ma se dal Cielo rivedremo tutte queste cose, perchè sprecare per me tanto tempo e tanto denaro?... Oh, Madre, io la ringrazio della sua bontà; ma le chiedo la grazia che mi lasci in india a lavorare, finchè il Signore mi concede ancora salute e forza.
Tuttavia se lei crede bene che rimpatri, « fiat! », ubbidisco anche subito. È però così bello lavorare in mezzo a questa povera gente: lebbrosi, paria, figli di nessuno! Il nostro díspensarío è sempre affollato; ogni giorno passano 150 ammalati. Quest'anno ho avuto la soddisfazione di battezzare 96 angíoletti, ormai tutti al sicuro in Paradiso.
Sono senza denti e senza un occhio; le mani da qualche mese non sono più tanto piagate, sebbene ancora delicate e prive di forza... Ma sono sempre una capretta buona soltanto a sal tare da un villaggio all'altro, per medicare, consolare, asciugare lacrime e aprire le porte del Cielo ai morenti...
Difficoltà? Nessuna. Croci? Umiliazioni? E chi ne è senza? Lo disse Gesù: «Chi vuoi venire dietro di me prenda la sua croce e mi segua ». E così ho cercato di fare in questi 28 anni di Missione, e cerco di fare ogni giorno... Ho avuto un solo desiderio in tutta la mia vita: morire míssionaría in India; ed ora che sono quasi alle porte, non mi privi, Madre, di tale gioia.
SR. MARIA RAVALICO, F. M. A.
Nella terra dei diamanti
GIUBILEO DI DIAMANTE
Col 20 dicembre 1956 scoccarono sessant'anni da quando il primo drappello di Salesiani toccò la terra del Sud Africa.
Dice la cronaca che il 20 dicembre 1896 i Salesiani arrivarono a Città del Capo. Appena la bella nave fu ormeggiata nel porto, Don Barni, impaziente, si precipitò dall'imbarcadero e con la mano toccò il suolo, prendendone spiritualmente possesso in nome di Don Bosco. Ripeteva il gesto degli antichi conquistadores spagnoli, quando scoprivano nuove terre.
Disco verde
Nel 1883 il Vicario Apostolico del Distretto Ovest del Capo, S. E. Mons. Giovanni Leonard, chiese a Don Bosco l'aiuto di alcuni salesiani per lavorare a Città del Capo. Aveva alle sue dipendenze solo 13 sacerdoti secolari, insufficienti per un territorio troppo esteso. Incaricò di condurre le trattative con Don Bosco il cavaliere O' Riley; questo gentiluomo doveva venire in Italia per accompagnare a Roma i suoi due figli, studenti presso il Collegio di Propaganda Fide. Uno dei due, Bernardo, divenne in seguito Vicario Apostolico di Città del Capo e fino alla morte, avvenuta nel luglio ultimo scorso, si mantenne affezionato ammiratore e amico dei Salesiani.
Don Bosco aveva già puntato gli occhi sull'Africa. In una conversazione si era anche lasciato sfuggire il desiderio di piantare le sue isti tuzioni al Capo di Buona Speranza. Ai suoi figli, in una delle ultime raccomandazioni, lasciò questo impegno: « Spingetevi in Africa a tutti i costi». Ma varie cause lo costrinsero a declinare l'invito di Mons. Leonard.
Tredici anni dopo il vecchio vescovo tornò alla carica: pregò il conte Wilmot di persuadere Don Rua. Si deve concludere che le trattative ebbero successo perchè Don Rua dette disco verde e lanciò la prima spedizione di pionieri.
Da notare che un vecchio e affezionato ex allievo dell'Oratorio e di Valsalice, Mons. Pietro Strobino, Vicario Apostolico di Port Elizabeth, aveva già diffuso il nome di Don Bosco in quelle terre sudafricane. Ma il Signore volle che morisse alcune settimane prima che i Salesiani sbarcassero a Città del Capo.
Don Federico Barni fu da Don Rua messo a capo del primo drappello. Aveva trentatrè anni; conosceva a perfezione la lingua inglese, perchè veniva dall'essere catechista e maestro di musica a Battersea, vicino a Londra. Accettò l'incarico; tenne per l'occasione il discorso d'addio nella basilica di Maria Ausiliatrice a Torino, in occasione della partenza di cinquanta missionari salesiani, alla presenza del Cardinale e di Don Rua. La cronaca dice che fu appunto Don Barni a prendere spiritualmente possesso del Sud Africa.
Sviluppo
Quei primi confratelli si trovarono a dover lottare con le strettezze economiche e con sorella povertà, La loro casetta, in via Buitenkant, non aveva mobili, non aveva nemmeno una sedia. Ci fu un momento in cui le difficoltà parvero sopraffare quei generosi. Il loro entusiasmo si spense. Don Barni propose perfino di fare bagagli e di rientrare in Europa. Sembrava che il loro lavoro fosse sterile. Don Rua impedì quella specie di « Dunkerque » spirituale e pregò Don Barni di avere pazienza, tanta pazienza, e di fidare nell'aiuto del Signore. Don Barni ubbidì. Ma certo ci dovette essere qualche cosa di veramente grave e tribolante, se la signora Grath, una vera mamma dei Salesiani, che ebbe modo di conoscere e constatare le strettezze e le tribolazioni di quei tempi eroici, non poteva al ricordo, molti anni dopo, frenare le lagrime. Furono sei anni di durissima prova.
Ma venne nel 1902 Don Enea Tozzi. Sotto il suo impulso la Scuola professionale ebbe un meraviglioso sviluppo, tanto che, per insufficienza di locali, dovette essere trsferita in via Sonterset, dove anche oggi vanta il più lungo fabbricato della città. La scuola ha ormai conquistato una solida riputazione.
E vennero anche le prime migrazioni.
Don Tozzi iniziò una nuova opera a Lansdowne, nei dintorni di Città del Capo.. Inizialmente fu una scuola agricola; ma poi, per l'improvviso estendersi della città fino a quel quartiere periferico, fu trasformata in scuola elementare, ginnasio-liceo e collegio. Vi è annessa la fiorente parrocchia di Maria Ausiliatrice.
Nel 1919 l'opera salesiana varcò i confini della. provincia e si spinse nel Transvaal, nelle terre dei diamanti, a Daleside. Anche qui la solita tecnica di ogni fondazione benedetta dal Signore: inizi poverissimi, ma ricchi di promesse.
Ed ecco che nel 1952 i Salesiani penetrano nella favolosa città dell'oro, a Johannesburg, e vi impiantano un convitto per giovani operai e studenti, intitolato a « Federico Ozanam », dato che l'opera era stata patrocinata dalle Conferenze di San Vincenzo. Il convitto è una piccola oasi di raccoglimento e di preghiera, in mezzo alla febbre dell'oro, e il vescovo di Johannesburg e il clero diocesano l'hanno scelto come luogo di convegno per i loro ritiri mensili.
Non basta. Un anno dopo, nel 1953, S. P. Mons. Barneschi, O. S. M., vescovo di Swziland, supplicò i figli di Don Bosco a voler prendere possesso del collegio « Little Flower High School » (Scuola superiore Fiorellino), appena ultimato, nella ridente e graziosa cittadina di Bremersdorp. Così altre centinaia di giovani sudafricani entrarono nella zona educativa salesiana.
Feste del Giubileo
Le celebrazioni commemorative dei sessant'anni di vita salesiana nel Sud Africa ebbero il seguente svolgimento:
Il giorno 5 dicembre gli allievi della Scuola professionale di Città del Capo offrirono un trattenimento di omaggio alle autorità ecclesiastiche, ai cooperatori e agli amici dell'Opera salesiana. Mons. Galvin, vicario generale dell'Archidiocesi, in assenza dell'Arcivescovo, ringraziò i Salesiani per l'opera che svolgono in città. Seguì la proiezione del fim Don Bosco, che fu una gioia per gli occhi e per il cuore.
La domenica 9 dicembre, S. E. il Delegato Apostolico del Sud Africa, l'Ecc.mo Arcivescovo Celestino Damiano, volle presiedere nella nostra chiesa di Città del Capo alla santa Messa solenne, cantata da Mons. O' Rourke. L'Arcivescovo era assist io dai due Direttori salesiani, Don Giacomo Doyle di Città del Calo e Don Michele Brennan di Lansdowne. Al Vangelo predicò Mons. Galvin. Disse che il progresso dei figli di Don Bosco in Sud Africa è dovuto tutto alla loro fedeltà allo spirito del Fondatore. Sua Eccellenza il Delegato Apostolico si disse lieto di trovarsi in mezzo ai Salesiani, che aveva conosciuto tanto bene a Roma e altrove. Si augurò di veder esteso quanto prima a tutta la gioventù del Sud Africa l'applicazione di un sistema educativo tanto utile e buono com'è quello di Don Bosco. Sessant'anni di vita sono, senza dubbio, un meraviglioso trampolino di lancio per altre opere migliori.